La monocoltura è anche monocultura


Conosciamo lo sguardo di Michele Serra: è attento, mai banale, tagliente, sa arrivare al nocciolo delle questioni, spiega e invita a riflettere. È un piacere parlare con lui anche di cibo, su cui ovviamente ha molto a dire…

Il lettori de La Repubblica e l’Espresso si godono le sue rubriche, gli affezionati di Che tempo che fa sanno che dietro alla trasmissione c’è anche lui. E i fans aspettano i suoi libri, sempre molto apprezzati. Michele Serra è uno dei nostri più arguti e attenti commentatori politici e sociali, giornalista, umorista, scrittore, autore teatrale e televisivo. Ma non tutti sanno che nel 2001 Michele ha sostenuto la campagna Fao Cibo per tutti e che l’argomento cibo, inteso nel più ampio senso possibile, lo appassiona molto. Lo incontriamo, infatti, alla presentazione del libro I Semi di mille rivoluzioni di Lucio Cavazzoni, attuale presidente di Alce Nero, storico marchio del biologico, ed entriamo con lui nel vasto mondo dell’alimentazione, affrontandolo in tutte le sue sfaccettature.

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Michele, raccontaci la tua amicizia con Lucio Cavazzoni

Amicizia antica, legata a questioni territoriali: abitavamo nello stesso paese dell’Appennino dove Lucio sta ancora oggi. Ci univano i figli piccoli e l’amore per la natura. Lucio mi disse dove nidificava il falco pellegrino, vicino a casa sua...

Perché tanta attenzione ai semi?

I semi, nelle mani dell’uomo, sono conoscenza. Soprattutto conoscenza. Perdere specie, perdere biodiversità vuol dire, per gli uomini e le donne, perdere conoscenza. La monocoltura è anche monocultura, rende più poveri e più ignoranti.

Il tuo interesse per il cibo è nato dal tuo essere giornalista o dall’esperienza personale?

Da tutti e due. Diciamo che ho una naturale attitudine per il convivio e i piaceri della tavola. Da giornalista ho avuto la fortuna e il privilegio di poter conoscere persone e situazioni che hanno dato struttura a questa inclinazione. Ho avuto l’opportunità di conoscere luoghi, sapori, costruttori di cibo. L’amicizia con Carlo Petrini è stata, in questo senso, determinante. Una di quelle che mi hanno davvero arricchito la vita. Carlo, con tanto di fascia tricolore al petto, è stato anche il celebrante del mio matrimonio con Giovanna Zucconi, ne sono molto fiero.

Oggi come si può parlare di cibo in modo corretto e incisivo?

“Quando è moda, è moda”, cantava Gaber. Certo, attorno al cibo esiste una chiacchiera molto fitta e spesso fastidiosa. È un argomento primario, basico, che rischia di passare per “lussuoso”, un vizio, un fronzolo sociale, una maniera per essere più trendy. Bisogna battersi perché l’argomento torni ad assumere tutto il suo formidabile peso politico, sociale e culturale. Questo non vuol dire parlarne in maniera austera e pedante: attorno alla tavola c’è, ovviamente, anche il piacere, e c’è anche lo svolazzo da grande chef. Ma guai a lasciar vincere l’approccio futile su un tema così vitale.

Perché, secondo te, non si riesce a risolvere il problema della fame nel mondo?

Perché è un problema di povertà, iniquità. Ci sarà da mangiare e da bere per tutti quando ci saranno più democrazia e più uguaglianza. Quando il sogno della “sovranità alimentare”, ovvero dell’autodeterminazione dei produttori e dei consumatori del cibo, si sarà avverato, del tutto o in parte. Ormai è assodato che la fame non è questione di penuria di cibo, ma di povertà. Schematizzando: si ha fame non perché manchi il pane, ma perché mancano i soldi per comperarlo. Non è un tema politico? Eccome se lo è. È il più importante di tutti i temi politici del pianeta Terra.

Nel tuo libro Gli sdraiati affronti il conflitto generazionale: passa anche attraverso il cibo?

Beh, direi proprio di sì. Si diventa adulti anche a tavola. E si evita di diventarlo anche rimanendo legati a un’alimentazione infantile, golosa e irriflessiva. Acquistare sicurezza nei gusti e nei giudizi è ciò che rende adulti. Non farlo, è ciò che prolunga l’infanzia oltre i suoi limiti naturali.

Ti è capitato di utilizzare il cibo nella satira?

Molte volte. Ho scritto satira sui ristoranti fusion, sui vezzi dei cuochi, sulle esilaranti esagerazioni dei sommelier e dell’enologia. Ho scritto un racconto satirico sulla mania ossessiva di farsi il nocino in casa. Se mai ne avrò il tempo, mi piacerebbe raccogliere tutto in un libretto eno-gastro-satirico.

Ricordaci l’episodio del giornalista olandese…

Un giornalista olandese aveva preso in giro i visitatori di un mercato bio, che non riuscivano a riconoscere un sapore bio da un sapore, diciamo così, agroindustriale. Umorismo a buon mercato, facile, che evitava di spiegare che la questione del bio non è legata solo al palato; è legata soprattutto a come si tratta la terra, come si preservano i campi dai veleni chimici. Un cibo bio non è solo un sapore, è la garanzia che per ottenerlo non è stata offesa la terra. Se non si parla di questo, non si parla di biologico.

Vegan e vegetariani da un lato e consumatori acritici dall’altro: c’è posto per una via di mezzo?

La via di mezzo è sempre la via maestra, se non si vuole essere troppo snob o, al contrario, troppo corrivi. Detesto il fondamentalismo alimentare, più che una scelta mi sembra una patologia, rispetto nel profondo i vegetariani e i vegani ma non li sopporto se diventano fanatici o intrusivi, se giudicano gli altri. Quanto a quelli che non sanno neanche cosa mangiano, e riempiono il carrello del supermercato a casaccio, sono la massa colpevole della propria sconfitta e della propria subalternità. Spero che prima o poi vedano la luce.

Cosa possiamo fare per difenderci dalle truffe alimentari in genere?

Cercare di capire che cosa compriamo, dove e perché. Rifiutando ciò che non è etichettato in modo comprensibile. E cercando di ristabilire, il più spesso possibile, un nesso, un rapporto, una conoscenza tra produttore e consumatore. La filiera corta non è un vezzo. Risponde alla necessità di ridare a quello che mangiamo un nome e un volto.

Hai avuto occasione di occuparti di un orto o di dare una mano in campagna?

Eccome. Nei campi e in giardino so fare molto, oserei dire quasi tutto. Mi manca ancora il vero salto di qualità, che è comprare un trattore, salirci sopra e riuscire a non ribaltarmi in un fosso. L’attività più massacrante è senza dubbio l’orto. Ma è anche quella più gratificante. In questo senso la natura è equa: prezzo alto per alto godimento.

Ti piace cucinare e fare la spesa?

Mi piacciono molto tutte e due le cose. Sono entrambe legate alla socialità. Al mercato del paese dove vivo incontro amici e conoscenti. Il mercato è un pezzo fondamentale della polis, provate a immaginare un mondo senza mercati e avrete l’immagine di un mondo votato alla tristezza e alla solitudine. Quanto ai fornelli, mi piacerebbe starci più spesso ma il lavoro non me lo permette. Ma quando ci riesco, credo proprio di cavarmela decentemente. Ho appena fatto un minestrone di zucca e cavolo nero a mio parere notevole.

Un buon proposito, una speranza legati al cibo

Che il cibo diventi il primo strumento grazie al quale impariamo finalmente a distinguere tra qualità e quantità. La società di massa è una società di quantità. Di non scelte. Una società che sceglie è una società che ha finalmente imboccato la strada della qualità. Le patologie alimentari, bulimia e anoressia, sono in grande aumento, una piaga sociale. E secondo me sono la drammatizzazione di una società che è bulimica e anoressica nel suo complesso: ingorda, sprecona, irriflessiva, poco padrona di se stessa. Crescere non vuol dire diventare più grossi, vuol dire diventare più grandi.

Foto di: Filippo Milani

La monocoltura è anche monocultura - Ultima modifica: 2016-02-01T00:00:00+01:00 da Redazione

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