Dalla constatazione dei limiti dell’agricoltura industriale, alla conversione al biologico, fino alla scoperta che le sementi convenzionali non sono le più adatte a essere coltivate in bio. Un percorso che ha portato alla messa a punto di una serie di progetti per riportare all’interno delle aziende agricole, nei diversi territori, la scelta dei semi. Ne parliamo con Andrea Pitton che, in Friuli, è titolare di una di queste aziende
Agricoltore di almeno terza generazione Andrea Pitton è subentrato al padre nella titolarità dell’azienda a gestione familiare che su una cinquantina di ettari, di cui la metà in affitto, a Rivarotta di Tor (Udine), coltiva ortaggi e cereali venduti nelle reti locali di filiera corta. Nel gennaio 2006 ha iniziato la conversione dei primi tre ettari al biologico, adesso sono una quindicina e “l’intenzione è di convertire tutti i terreni di nostra proprietà a biologico. Per i terreni in affitto – spiega - siamo invece restii perché si fanno degli investimenti, poi magari succede che il proprietario non ti rinnova più il contratto oppure chiede un aumento, e allora? Nelle nostre zone, poi, si sta sviluppando la coltivazione di mais per il biogas e questo fa lievitare gli affitti con il rischio di mettere in difficoltà chi come noi continua a produrre cibo”.
Che cosa l’ha convinta a convertirsi al biologico?
In un’azienda convenzionale, come quella nella quale sono cresciuto e dove ho lavorato con mio padre, la produzione dipende quasi interamente da quello che viene dall’esterno dell’azienda. Il carburante per le macchine, i concimi, gli erbicidi e i pesticidi, tutto di origine chimica. Per l’agricoltura industriale non c’è certamente il rischio di scarsa assistenza tecnica. Solo che gli unici tecnici che vengo sul campo sono quelli delle multinazionali che ti vogliono vendere i loro “pacchetti tutto incluso” che riducono la terra a un banale substrato senza vita a cui aggiungere semi, concimi e pesticidi per ottenere il raccolto.
A un certo punto con mia moglie abbiamo pensato che le cose non stessero affatto così, che la terra fosse una cosa viva e che solo trattandola come tale saremmo riusciti a produrre alimenti di qualità senza danneggiare la nostra salute e l’ambiente. Così ci siamo avvicinati all’agricoltura biologica.
Cosa è cambiato per voi?
L’innovazione più importante che abbiamo introdotto è stata di avere occhi per osservare la terra e sapere cosa fare e quando fare una certa cosa. Osservare la terra intendo non la superficie, che qualcosa dice ma non tanto. No, il terreno va seguito da vicino per vedere chi ci vive e come, osservare e comprendere la sua complessità di organismi viventi, di minerali, di sufficiente o insufficiente umidità ecc.
Subito dopo è venuta la scelta di utilizzare esclusivamente la concimazione vegetale, sia per gli ortaggi (fatta eccezione per quelli coltivati in serra) sia per i cereali. Usiamo degli erbai con un misto di cereali (avena, segale, orzo, frumento, ecc.) e leguminose (veccia, pisello proteico e da foraggio ecc.). Al momento opportuno questi erbai vengono trinciati e interrati e continuano a partecipare al ciclo vitale del terreno, arricchendolo. Per di più tutte queste essenze hanno apparati radicali diversi, quindi lavorano il terreno nel modo più naturale permettendo a noi di intervenire solo con lavorazioni leggere.
Per le sementi come si è regolato?
Quando abbiamo iniziato la conversione dell’azienda al biologico ci siamo messi a cercare semi biologici di cereali e di orticole e ci siamo subito accorti che, bene che andasse, si trovavano semi biologici ma erano quelli selezionati per l’agricoltura convenzionale. Cosa vuol dire? Facciamo l’esempio del frumento. I semi in circolazione sono di varietà molto spinte dal punto di vista della produttività, che non è detto coincida con qualità. Mio padre su un ettaro faceva 20-25 quintali di frumento, nell’arco di 30 anni si è passati a 90-100 quintali per ettaro. Ma a patto di utilizzare tutto il “pacchetto” di cui ho parlato all’inizio, inclusi quindi concimi, diserbanti e pesticidi chimici. Senza tutti questi apporti esterni quei semi non danno gli stessi risultati e anzi si dimostrano molto deboli. Faccio un solo esempio: adesso in agricoltura convenzionale si fanno due trattamenti di fungicidi, dove mio padre non ne faceva nemmeno uno… Insomma, bisognava cercare una soluzione alternativa.
E l’alternativa è stata il progetto Solibam coordinato dal professor Ceccarelli?
Attraverso la “Rete delle aziende sperimentali Aiab” – che è partner di questo progetto europeo - di cui faccio parte, due anni fa sono entrato in questo progetto che, a partire da vecchie varietà di semi di cereali punta a trovare nelle varie regioni del nostro paese le varietà più adatte ad essere coltivate con buoni risultati in agricoltura biologica. Praticamente si fanno delle parcelle di terreno nelle quali si semina un miscuglio di semi. Alla raccolta, in una nuova parcella si riseminano solo le varietà che hanno dato, a giudizio dell’agricoltore e del ricercatore che lo affianca, i migliori risultati, ciascuna in una fila… e così via fino ad arrivare ad avere selezionato il seme giudicato più adatto nella quantità che consente di passare alla coltivazione in pieno campo.
Siete già arrivati alla coltivazione in pieno campo delle varietà che avete selezionato?
No, ma la prossima estate avremo abbastanza seme per fare un po’ di farina e valutare in pratica anche la qualità – dal punto di vista tecnologico, nutrizionale e del gusto - delle varietà che ci sembrano più adatte alla nostra area, un aspetto di cui naturalmente dobbiamo tenere conto nelle nostre scelte.
Un aspetto molto importante di questo progetto è che stiamo reimparando a fare una cosa che come agricoltori abbiamo disimparato, vale a dire a selezionare le sementi. E non è un lavoro che si fa una volta per tutte perché le condizioni cambiano e in ogni caso bisogna sempre essere aperti a cose nuove. Per questo quello che il professor Ceccarelli ci insegna è che le prove con le parcelle e con i miscugli di semi con le relative selezioni è bene che diventi parte integrante e permanente dell’attività dell’azienda agricola.
Il progetto Solibam riguarda i cereali, e gli ortaggi?
Sono convinto che anche per gli ortaggi il futuro sia produrre dei semi adatti alla zona in cui si coltiva. Noi abbiamo cominciato con varietà di radicchio, di fagiolino e di finocchio.
Questo lavoro di ricerca non entra in contraddizione con la produzione per il mercato che è lo scopo dell’azienda?
La ricerca è impegnativa, certo, però ogni azienda deve investire sul suo futuro. Io devo avere nella mia testa un’idea su come andare avanti, sulle scelte da fare ecc. La questione delle sementi adatte all’agricoltura biologica in tutte le sue applicazioni – per noi i cereali e gli ortaggi – è troppo importante per noi produttori biologici per non prendere parte alla sua soluzione. E’ difficile, ma è necessario.
Riuscite a comunicare questa vostra esperienza a chi acquista i vostri prodotti?
Per noi non è difficile perché vendiamo tutto a livello locale, ai GAS (gruppi d’acquisto solidale) e in un “mercato contadino” periodico, quindi abbiamo un rapporto diretto con i cittadini. Allora, se succede che qualcosa non viene bene come dovrebbe, come per esempio quest’anno le patate, possiamo spiegare perché e abbiamo la comprensione dei nostri acquirenti. Poi abbiamo incontri periodici con i responsabili dei vari Gas, ai quali partecipa anche il tecnico che segue la nostra azienda, per mettere a punto la programmazione per i mesi successivi dei prodotti con i quali riempiremo le borse di tre-cinque chili di ortaggi che confezioniamo e consegnamo ogni settimana a ciascun membro dei Gas. E naturalmente sono occasioni nelle quali parliamo anche di quello che stiamo facendo.
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