La gallina, che “teneva ‘na voce come Caruso” aveva dominato la scena per un po’, ma poi, essendo “molto malata”, e anche un po’ strozzata, aveva tirato le cuoia, subendo la metamorfosi tipica del pennuto in questione e continuando comunque a trionfare sul palcoscenico sotto le sembianze di un sontuoso pollo. Che, anche scenograficamente, fa sempre la sua figura…
La gallina che "teneva 'na voce come Caruso" aveva dominato la scena per un po', ma poi, essendo "molto malata", e anche un po' strozzata, aveva tirato le cuoia, subendo la metamorfosi tipica del pennuto in questione e continuando comunque a trionfare sul palcoscenico sotto le sembianze di un sontuoso pollo. Che, anche scenograficamente, fa sempre la sua figura...
Silvio, quel pollo resta intonso sul tavolo, i fantasmi sono inappetenti, ma Eduardo in altre situazioni prevedeva che in scena si mangiasse davvero
Altro che! Eduardo, in teatro, faceva le cose sul serio, compresi i pranzi. Mitico il ragù della Titina in "Sabato, domenica e lunedì", preparato con tutti i sacri crismi la sera prima, cotto lentamente ore e ore, come cucina partenopea comanda, portato sul palcoscenico a coronare un trionfo di pasta e mangiato veramente nel corso della recita.
Nessuna finzione, quindi: comunque deve essere difficile mangiare e recitare.
Sì, non è facile, ma… i napoletani ci riescono! Una scena che preveda un pasto vero è molto più coinvolgente e riesce a trasmettere una verità in più. Senza contare il potere evocativo del profumo di quel ragù che si spandeva nel teatro, andando a toccare corde ataviche e segrete della mente, dei sensi e del cuore degli spettatori, che restavano ancor più coinvolti e inchiodati alle poltroncine a bocca aperta, a mangiarsi letteralmente la recitazione.
E tu, nato e cresciuto alle falde del Vesuvio, che ricordo hai dei cibi e dei riti della tua infanzia culinaria?
Intanto il ricordo di una cucina non di mare, come si può pensare, ma di terra, e piuttosto impegnativa, piena di intingoli e sughi, e che prevedeva anche elementi decisamente pesanti come la sugna, utilizzata per friggere, tutt’altro che salutare. Tipiche della mia infanzia erano le grandi tavolate domenicali e il rito degli ziti, una pasta lunga che prima della cottura andava spezzata e questo era un compito che spettava a noi bambini. Altri bei ricordi? L’onore e il piacere di assaggiare la fantastica crema pasticcera della mia nonna e di ripulire accuratamente la pentola in cui veniva cotta, e poi la cassaforte di mio padre, circuito da mia sorella e da me con lo scopo di fargliela aprire e poter accedere al suo tesoro, che consisteva in grandi blocchi di cioccolato, di cui noi bambini eravamo golosissimi…
Poi sei cresciuto e a un bel momento avrai dovuto occuparti della tua alimentazione
È successo verso i venticinque anni, quando sono venuto a Milano a lavorare al teatro dell’Elfo, passando da una buona cucina a una alimentazione di pura sopravvivenza, anche per il poco denaro di cui disponevo. Ero un frequentatore di catene di fast food globalizzato, che erano un po’ un incubo, ma a dire il vero non mi importava nemmeno granché di quel che mangiavo. Narra... una leggenda che spesso, verso mezzogiorno, bazzicassi “casualmente” sotto casa di Gabriele Salvatores, napoletano emigrato come me e con cui avevo legato subito, per farmi invitare, e non nego che la cosa capitasse con una certa frequenza. Lui aveva uno stile di vita molto attento e curato e anche la sua cucina era così. Ricordo anche le pizzelle fritte, fragrante leccornia napoletana, che mangiavo a casa dei suoi genitori, dove talvolta ero invitato. Per il resto, a notte fonda ci sguinzagliavamo per la città alla ricerca dei panini migliori e, quando potevamo, andavamo al ristorante dopo lo spettacolo. Questo rito della cena notturna tutti insieme, dopo le fatiche fisiche e mentali della recita, costituisce un elemento di socialità vera ed è uno di quelli che amo di più della vita del teatro: ci si rilassa, si discute dello spettacolo, si attenuano le differenze.
Purtroppo, però, non sempre ci si riesce, perché, soprattutto in provincia, è difficile trovare ristoranti aperti che accolgano a quell’ora tarda gente come noi, pessimi clienti anche per le diarie basse. E anche se non mi piace essere campanilista, devo spezzare una lancia a favore dei locali campani, che in tutta Italia sono i soli a tenere aperto fino alle ore piccole e che non riducono il loro servizio a un mero commercio, ma ci aggiungono il valore di donare qualcosa di buono che si è preparato per il puro piacere di farlo.
Qual è la differenza principale che hai notato nella convivialità fra Nord e Sud Italia?
Una cosa degna di nota e fondamentale: al Sud ti aprono la porta istintivamente e per tradizione, ti invitano a pranzo anche all’inizio del rapporto, per conoscerti, e questo non ha necessariamente un significato amichevole. A Milano e al Nord, invece, essere invitati a pranzo e sedersi insieme a tavola arriva alla fine di un percorso ed è un modo di sancire un rapporto: ne passa di acqua sotto i ponti prima che possa accadere una cosa del genere, ma vuol dire che veramente sei “dei loro”! Ricordo una metafora citata ai tempi di Tangentopoli: quando si voleva sottolineare la grande intimità, e, nello specifico, correità fra due malandrini, si diceva: “Lei poteva addirittura mettere le mani nel frigorifero del tale e talaltro…”.
Ma a te piace cucinare per te e per gli altri?
Io non sono un grande cuoco e quindi raramente, quando ero da solo, invitavo gente a pranzo, così come raramente mi cucinavo per me solo: mi arrangiavo, andavo al ristorante, anche se, per me, per mangiare bisogna essere almeno in due: è altrettanto triste pranzare da solo in casa o al Grand Hotel. Così andavo alla ricerca di un tapino come me, bisognoso di compagnia... gastronomica. Il momento del pasto lo sento legato alla famiglia, alla convivialità, alla condivisione e se non ci sono questi elementi, mangiare si riduce appunto a pura sopravvivenza. Comunque andare al ristorante, se è di buona qualità, è anche piacevole e quando hanno iniziato a circolare un po’ più di soldi è incominciata la ricerca dei locali migliori e griffati, anche se a dire il vero è poi diventata una vera mania consultare le guide, alla caccia di quello fra i migliori cinque d’Italia. Un’ossessione, come tante altre che martellano la testa della gente secondo le mode, come un lavaggio ipnotico del cervello. Ma per fortuna ora questo non mi interessa più e il mio rapporto col cibo è cambiato, soprattutto da quando è iniziato il “secondo tempo” della mia vita ed è entrata in scena la mia nuova compagna Maria Laura. Napoletana come me (moglie e buoi dei paesi tuoi!) grande cuoca, cucina i piatti come piacciono a me e con lei mangiare ha tutt’altro sapore: ora sedersi a tavola insieme è sempre una festa.
Ancora una volta cibo e affettività dimostrano di avere legami inscindibili. E qual è il suo più grande “dono d’amore” che cucina per te?
Credo che Maria Laura sia una delle migliori cuoche in fatto di genovese, un mitico piatto napoletano preparato con quintali di cipolle e carne, una cottura lentissima ma che richiede una grande maestria.
Con questa acquolina in bocca, facciamoci del male e parliamo di diete: hai mai dovuto ingrassare o dimagrire forzatamente per esigenze di copione?
Si, avrei dovuto una volta. Mi chiamò Nanni Moretti, mentre stava lavorando a “Caro Diario”, per offrirmi un ruolo in un episodio, purché perdessi cinque chili in poche settimane. Ma era il ventidue dicembre: con davanti lo sciorinamento culinario natalizio! Non ci pensai neanche e quell’episodio fu eliminato dal film.