È un’esperienza comune quella gommosità, più meno pronunciata, che avvertiamo quando ci capita di mangiare gli avanzi rimasti in frigorifero di pasta, riso o patate bollite. Ma anche del pane quando comincia a invecchiare. Un effetto comune ai cibi cotti e ricchi di amidi come i cereali, i tuberi o le castagne. In effetti, durante la cottura l’amido si modifica e poi, quando viene raffreddato, le sue molecole sono obbligate a trovare una nuova organizzazione, in quanto i trattamenti termici hanno profondamente modificato quella nativa. E grazie a questo fenomeno, chiamato retrogradazione, l’amido si modifica creando una struttura semicristallina. Tuttavia, perché rimanga gradevole è importante che sia presente un giusto grado di retrogradazione: se troppo, durante la masticazione si avrà la sensazione di una struttura troppo tenace.
Una curiosità. La retrogradazione è alla base della produzione degli spaghetti orientali come quelli di soia o di riso, che vengono essiccati dopo la modificazione dell’amido: solo così poi riescono a reggere la cottura senza disfarsi. Tra l’altro proprio per far percepire di meno questa gommosità sono tradizionalmente sottili.
Retrogradazione e glicemia: un rapporto interessante
Ma oltre al palato, qual è la conseguenza a livello nutrizionale di questa modifica strutturale dell’amido? Quella principale è che diventa meno assimilabile dal nostro organismo perché, almeno in parte, si trasforma in amido resistente, così chiamato in quanto meno attaccabile dagli enzimi dell'apparato digrente. Il fatto che venga digerito lentamente comporta anche un rilascio di zuccheri nel sangue più graduale a tutto vantaggio della glicemia, che aumenta in modo meno brusco. Di conseguenza, da tempo si ritiene che la retrogradazione riduca l’indice glicemico degli alimenti cotti e raffreddati (oppure invecchiati come il pane raffermo). E questo studio pilota pubblicato sull’European Journal of Clinical Nutrition va proprio in questa direzione.
L’obiettivo di un team di ricercatori della britannica Università del Surrey è stato quello di verificare in un gruppo di 10 volontari sani (5 donne e 5 uomini) gli effetti sulla risposta glicemica postprandiale di un piatto di spaghetti al pomodoro con solo tre ingredienti: pasta, salsa di pomodoro e olio di oliva. La pasta, una volta pronta è stata somministrata in tre modalità differenti. Ossia, cucinata e servita; cucinata, raffreddata e servita; cucinata, raffreddata, riscaldata e servita.
Ovviamente ai volontari sono stati prelevati campioni di sangue dopo i pasti per verificare l’andamento della glicemia sanguigna. Tra le tre diverse modalità, quella che ha rialzato meno la glicemia è stata la pasta raffreddata e riscaldata (ma anche il refrigeramento ha provocato un effetto). E in effetti gli stessi ricercatori si sono interrogati sul perché il riscaldamento successivo alla refrigerazione abbia ridotto ulteriormente l’indice glicemico, facendo l’ipotesi che ciò sia dovuto alla presenza dell’olio, che ha contribuito a ridurre ancora di più la digeribilità dell’amido.
Va detto che si tratta di un piccolo studio con pochi partecipanti e non è conclusivo, tuttavia i suoi risultati non vanno ignorati. In effetti, solo grazie a una semplice procedura gastronomica, riuscire a ottenere la riduzione della curva glicemica postprandiale non è irrilevante. Specie per chi ha la glicemia fuori controllo. E, in attesa che la ricerca scientifica fornisca indicazioni più precise, dal valore terapuetico, provare a vedere se funziona non comporta alcun rischio, se non quello di mangiare una pasta non proprio perfetta per il palato (ma, magari, su questo aspetto si può migliorare...).