La biodiversità agricola è una ricchezza naturale del paese e per mantenerla e rinnovarla occorre un lavoro di ricerca e sperimentazione, particolarmente necessario e urgente per l’orticoltura biologica. Ne parliamo con Claudio Caramadre, titolare insieme al fratello di un’azienda che produce ortaggi bio nell’Agro Romano
I genitori avevano una piccola azienda di un ettaro coltivato a ortaggi e li vendevano direttamente in un mercato rionale di Roma. Claudio Caramadre e il fratello hanno raccolto il testimone decidendo di continuare a fare gli agricoltori con un’azienda orticola, l'Azienda Agricola Biologica Caramadre, di 20 ettari nella piana di Maccarese, una delle zone più fertili d’Italia. Fra i problemi che hanno incontrato quando sono passati al biologico c’è quello delle sementi. Così hanno cominciato a fare sperimentazione in proprio e ora partecipano alla messa a punto di un progetto di ricerca sulle orticole promosso dall’Aiab. Ma andiamo con ordine.
Quando avete convertito l’azienda al biologico?
Al biologico abbiamo cominciato a pensare molto prima del 2000 quando effettivamente abbiamo fatto la conversione, ed è stato un po’ come raccogliere una sfida verso la maggioranza degli addetti ai lavori che dicevano che ormai senza chimica non si poteva più fare agricoltura. Ci abbiamo messo un po’ perché non volevamo fare una scelta in modo avventato, tanto più che abbiamo un’azienda di una certa dimensione, con sei dipendenti, e volevamo essere sicuri che ci fosse mercato per gli ortaggi biologici che volevamo produrre.
Quali problemi avete incontrato nell’affrontare la conversione?
Dal punto di vista agronomico il problema principale è stato la mancanza di ricerca e l’inadeguatezza del supporto tecnico. A differenza che nell’agricoltura convenzionale dove per ogni problema che hai l’industria chimica è pronta a darti supporto con un erbicida, un pesticida ecc., al punto di creare una sorta di dipendenza, nell’agricoltura biologica i problemi che incontri te li devi risolvere da solo cercando le informazioni che ti servono, sperimentando ecc. Nel lavoro in orticoltura biologica, per esempio, i grandi temi sono due: il controllo delle infestanti e il reperimento di semi adatti.
L’altro problema che abbiamo dovuto affrontare è stato quello della commercializzazione. Nel mercato bio italiano, forse anche perché molta produzione va all’estero, c’è poca concorrenza, ci sono poche grandi centrali che fanno riferimento alla GDO, poi una grande frammentazione. Mentre dal punto di vista agronomico l’agricoltura biologica è fortemente innovativa, dal punto di vista della distribuzione non lo è affatto, ha seguito gli schemi esistenti.
Attualmente cosa producete e dove lo commercializzate?
Siamo un’azienda specializzata in ortaggi e, a seconda delle stagioni, abbiamo dalle 14 alle 25 referenze disponibili per il mercato. Siamo tra i fornitori del più grande mercato biologico d’Europa, vale a dire le mense del comune di Roma. Siamo presenti anche nella Città dell’altra economia, all’ex mattatoio, e seguendo la tradizione familiare abbiamo un banco in un mercato di quartiere oltre a un punto vendita in azienda. Poi andiamo nella grande distribuzione e nei negozi specializzati in tutta Italia. Con i Gruppi d’acquisto solidale abbiamo avuto qualche problema riguardo alla dimensione delle cassette e alla consegna. Per fare noi la consegna abbiamo posto il limite minimo di 25 kg a casetta, mentre per chi viene a prendersela in azienda non c’è alcun limite.
Accennava prima al problema delle sementi…
E’ uno dei problemi più grossi per l’agricoltura biologica in generale. Per l’orticoltura poi quasi non esistono sementi selezionati appositamente per l’agricoltura biologica. Per questo per mandare avanti la nostra attività usiamo qualunque tipo di seme consentito dal regolamento senza andare tanto per il sottile su chi l’ha prodotto, se un’azienda biologica o una multinazionale che copre con uno spicchio della sua attività anche questo settore. Il fatto di dipendere per questo dal mercato, di non essere in grado di produrre i semi che ci servono però crea anche qui una forma di dipendenza, contro la quale credo sia bene combattere.
Come?
Nel campo delle sementi credo che si debba distinguere fra quelli che fanno un lavoro di conservazione e quelli che invece fanno un lavoro di vera e propria selezione migliorativa. Il primo non richiede grandi spazi e grandi competenze, quindi è alla portata di molti e ha una certa diffusione. Noi attingiamo a queste riserve di biodiversità, proviamo tutte le sementi e le varietà di cui veniamo a conoscenza e se hanno un minimo di valenza commerciale iniziamo anche a produrle riservandole però solo alla vendita diretta dove possiamo presentare e spiegare la particolarità del prodotto. Questo è successo, per esempio con la bieta a costa gialla, con la bieta a costa rossa e con alcune varietà di cavolo. Ma, ripeto, in questo modo non si fa nulla di nuovo. Inoltre, anche se è certamente utile fare un lavoro di conservazione non bisogna però cadere nel tranello di ritenere che vecchia varietà sia sinonimo di varietà migliore.
Invece il lavoro di selezione migliorativa?
Se dalla conservazione dell’esistente si vuole passare alla ricerca di qualcosa di nuovo, allora il discorso cambia. Tanto più che, nel nostro caso, “nuovo” significa anche selezione di caratteri che rendono una varietà particolarmente adatta alla coltivazione con il metodo dell’agricoltura biologica. E allo stesso tempo che lo rendano adattabile a condizioni climatiche, di terreno ecc. diverse. Fino a mettere il singolo agricoltore in grado di produrre da sé il seme migliore per la propria azienda, ma a partire da una varietà che è il risultato di una ricerca sufficientemente ampia e prolungata da dare buone garanzie dei risultati. Questo è un lavoro che richiede spazi, tempi e risorse molto differenti da quelli per la sola conservazione delle vecchie varietà.
Ci sono esperienze di questo tipo in atto?
Sulle orticole c’è ben poco. Aiab, l’Associazione italiana per l’agricoltura biologica, sta lavorando alla messa a punto di un progetto al quale noi abbiamo aderito che riguarda proprio le orticole. L’idea è di costruire una rete di aziende in diverse parti del paese che siano disposte a destinare una quota dei loro terreni a un processo di selezione migliorativa e non solo conservativa. Oltre alle aziende disponibili bisogna poi reperire la genetica di partenza delle diverse orticole sulle quali si intende lavorare. Infine bisogna trovare le risorse economiche che sostengano un lavoro che può durare anni. D’altra parte, la biodiversità agricola, che richiede sia conservazione che innovazione, è una ricchezza naturale del paese e per mantenerla e rinnovarla è necessario investire. Pensi per esempio al broccolo romanesco, una coltura dell’agro romano che più tipica di così non si può. Ebbene se vuoi coltivarlo devi usare semi che vengono dall’estero.
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