Alcuni dei problemi che devono affrontare gli agricoltori biologici per coltivare uno degli ortaggi più comuni e le differenze con l’agricoltura convenzionale. Ne parliamo con Salvatore Ferrandes titolare dell’omonima Azienda Agricola in provincia di Latina
In tutto venti ettari, dieci di proprietà e dieci in affitto, in Provincia di Latina. Sei ettari sono coltivati a kiwi, quattro sono occupati dalle serre e dieci sono a ortaggi in campo aperto (pomodori, cocomeri, lattughe, patate, carote ecc.). “In realtà di questi quattordici ettari – spiega Salvatore Ferrandes, titolare dell’omonima Azienda agricola – solo circa la metà sono effettivamente impiegati nella produzione di ortaggi, gli altri sono in rotazione o coperti da piante da sovescio come prevede l’agricoltura biologica per migliorare la qualità del terreno e conservarne la fertilità”.
Da quando ha scelto di fare agricoltura biologica?
Da una quindicina d’anni. Prima il titolare dell’azienda era mio padre che si era trasferito qui dall’isola di Pantelleria e aveva impiantato una coltivazione di zibibbo, la famosa uva coltivata nell’isola. La cosa ha funzionato per diversi anni, poi le cose hanno cominciato ad andare meno bene, i prezzi calavano… insomma ho pensato che bisognava cambiare. Così, quando sono subentrato a mio padre nella gestione dell’azienda ho abbandonato la viticoltura e ho cominciato a coltivare ortaggi e kiwi convertendo al tempo stesso l’azienda all’agricoltura biologica.
Perché questa scelta?
A essere sincero la scelta di cambiare modo di coltivare all’inizio era dettata più che altro dal fatto che questa mi sembrava una buona opportunità di mercato. Era chiaro che si trattava di una strada in salita, per il maggiore impegno che il metodo imponeva, ma alla fine avrebbe funzionato e pagato. Poi man mano che imparavo, anche con l’aiuto di agricoltori vicini, mi rendevo conto delle differenze con quello che facevo prima e di quanto passare all’agricoltura biologica fosse importante per la salute di chi lavora in campagna, dei consumatori e dell’ambiente.
Quali sono le differenze fra orticoltura biologica e convenzionale?
Rispondere in generale sarebbe troppo lungo, perciò le faccio un esempio. Le erbacce crescono più velocemente delle carote, con il rischio che queste ultime non riescano venire fuori, sia nell’agricoltura biologica sia in quella convenzionale. La cosa è resa più complicata dal fatto che in questa coltura non si possono preparare le piantine per poi trapiantarle in campo aperto, bisogna seminare direttamente sul campo. Allora: si prepara il terreno, si semina e si innaffia. Subito dopo comincia la corsa che la carota ha perso in partenza, le erbacce salgono da sette a dieci giorni prima di loro.
Allora che si fa?
In agricoltura convenzionale la soluzione è semplice e poco costosa, ma certamente non innocua per l’ambiente e gli organismi che ci vivono. Dopo la semina s’interviene spruzzando il terreno con erbicidi, prodotti chimici di sintesi che controllano le infestanti impedendo loro di svilupparsi e competere con le carote. In agricoltura biologica la soluzione è invece più complessa e più costosa perché richiede diversi tipi d’intervento – fra cui pirodiserbo (una macchina controlla le infestanti producendo una fonte di calore a diretto contatto delle infestanti), lavorazioni del terreno con sarchiatrice e alla fine intervenendo anche manualmente. Il tutto, con un grande dispendio di lavoro, ma con più rispetto per l’ambiente.
E’ vero anche per la carota che un’altra differenza è che la resa in agricoltura biologica è più bassa che in quella convenzionale?
Sicuramente sì e nel caso delle carote può arrivare fino a più della metà: 300 quintali per ettaro anziché 800. La ragione principale è che in agricoltura biologica non si possono fare “forzature”. Mi spiego. In agricoltura biologica per nutrire le piante si usano sostanze che raggiungono direttamente le loro radici senza passare dal terreno. Il risultato è che la pianta cresce di più ma il terreno s’impoverisce ogni anno. In agricoltura biologica, invece, i concimi organici che sono utilizzati non sono mirati alla pianta ma servono a “nutrire” il terreno. In questo modo si garantisce la crescita – minore però - della carota e, al tempo stesso, si conserva la sua fertilità. E’ il principio dell’agricoltura biologica secondo il quale bisogna restituire alla terra quello che alla terra si toglie con le nostre coltivazioni, magari un po’ di più.
Per capire le minori rese bisogna poi considerare anche che il numero delle piante per ettaro in agricoltura biologica è inferiore. Infatti, in questo metodo di conduzione dell’azienda, malattie, funghi e insetti nocivi si contrastano innanzi tutto con misure preventive e fra queste misure c’è tenere la giusta distanza fra le piante per non facilitare il diffondersi di eventuali malattie ecc. In agricoltura convenzionale questo problema non c’è, si possono fare impianti più fitti perché se insorge qualche problema, o anche prima che insorga, s’interviene spruzzando tutto il campo con qualche pesticida.
Tutto questo naturalmente influisce sul prezzo, superiore, che il consumatore deve pagare per acquistare carote biologiche.
Queste difficoltà sono anche una conseguenza del fatto che in agricoltura biologica si usano spesso le stesse sementi dell’agricoltura convenzionale?
In una certa misura sicuramente sì, per esempio l’agricoltura biologica ha bisogno di lavorare con piante più resistenti alle avversità. E’ per questo che da qualche anno noi stiamo partecipando a una ricerca, proprio sulla carota, condotta da una ditta sementiera svizzera, la Sativa http://sativa-rheinau.ch/. Fra gli obiettivi della ricerca – oltre quelli delle caratteristiche organolettiche – c’è proprio quello della selezione di una varietà più rustica e resistente. I risultati sono buoni ma purtroppo le ricerche di questo tipo sono ancora troppo poche rispetto alle necessità che abbiamo.
In quanti lavorate nell’azienda?
Siamo quattro della famiglia e 7 dipendenti, più gli stagionali quando ce n’è bisogno. Le attività da svolgere non riguardano solo i campi e le serre ma anche la lavorazione dei prodotti (lavaggio, confezione ecc.) e la frigoconservazione. Quest’ultima in alcuni casi è importantissima, per esempio per il kiwi. In Lazio si raccoglie da fine ottobre a fine novembre e la frigo conservazione ci consente di portare il prodotto sul mercato per tutto l’anno.