Certificazione di processo e certificazione di prodotto non sono necessariamente in conflitto tra loro. Bisogna accettare la sfida dei consumatori che chiedono l’assenza di residui nel prodotto finale. Abolire tutte le deroghe? Se si cancellasse entro il 2015 quella sulle sementi l’agricoltura biologica europea crollerebbe. A dirlo è Vincenzo Vizioli, presidente dell’Associazione italiana per l’agricoltura biologica
La Commissione europea ha presentato a fine marzo la “Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici” che ha come obiettivo la ridefinizione del quadro di riferimento normativo cui finora il settore del biologico ha fatto riferimento. Su questa proposta il Mipaaf (Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestale) ha avviato una fase di consultazione con le organizzazioni di categoria e con le associazioni del biologico, anche in vista del semestre della presidenza di turno italiana che è appena niziato. In attesa di conoscere i risultati di questa consultazione “Informabio” propone, attraverso delle brevi interviste, una sorta di “tavola rotonda virtuale” sui temi sollevati da questa proposta di riforma che interessano non solo gli addetti ai lavori (agricoltori, trasformatori, commercianti, tecnici, controllori) ma anche i cittadini-consumatori.
Questa settimana ne parliamo con Vincenzo Vizioli, presidente dell'Associazione per l'agricoltura biologica (Aiab).
Qual è la sua valutazione d’insieme sulla proposta di Regolamento avanzata dalla Commissione Europea
E’ positiva la scelta di racchiudere l’intera normativa sul biologico europeo, ora in forma spezzettata, in un unico testo. Così come sono condivisibili le valutazioni e gli obiettivi generali indicati nel regolamento. Anche se dobbiamo necessariamente essere prudenti, infatti, non è la prima volta che, in sede europea, si parte da considerazioni generali condivisibili sul ruolo dell’agricoltura biologica, per poi trovarci di fronte, nella fase applicativa, a conclusioni assolutamente deludenti, come per esempio nella recente riforma della PAC. Siamo consapevoli che si tratta di una prima bozza ma la giudichiamo un buon punto di partenza ed è una buona cosa che il ministro dell’agricoltura Martina abbia subito attivato un tavolo di confronto. La presidenza dell’Italia del semestre europeo che comincia nei prossimi giorni è poi una grande occasione perché il nostro paese assuma un ruolo nel disegnare il futuro del biologico europeo cercando anche di migliorare, a favore del sud, gli equilibri europei che, finora, sono sempre stati favorevoli al nord Europa.
Una novità sicuramente positiva è che si preveda la possibilità della certificazione di gruppo anche per le piccole aziende europee, mentre finora era prevista solo per i prodotti importati dai paesi in via di sviluppo. Questo sistema, riducendo i costi della certificazione, faciliterebbe l’ingresso e la permanenza nel sistema di controllo anche delle piccole aziende.
E’ invece inaccettabile l’eccessivo ricorso agli atti delegati che per la forma in cui sono presentati assumono la veste di deleghe in bianco che potrebbero stravolgere parti importanti della proposta.
Cosa pensa della tendenza a spostare l’asse del sistema di controllo dalla certificazione del ciclo produttivo alla certificazione fatta solo sulla base delle analisi sul prodotto finale?
Questa tendenza purtroppo è già presente, di fatto, nel sistema di controllo attuale, basato prevalentemente sulle carte, e sarebbe molto grave se fosse ufficializzato dal nuovo regolamento che si discuterà nei prossimi mesi. L’enfasi posta sul prodotto finale per certi versi è del tutto ingiustificata perché i prodotti biologici sono già oggi sottoposti, oltre che ai controlli specifici per la certificazione bio, a tutti i controlli previsti dalla legge per tutti i prodotti alimentari. D’altra parte, però, attraverso la consultazione pubblica sul sistema di controllo fatta dalla Commissione, par di capire che ci sia stata una forte richiesta di avere garantita la sicurezza dei prodotti biologici vista essenzialmente come assenza di residui. A questa domanda bisogna dare una risposta che però non può essere quella di puntare tutto sulle analisi finali che, a quel punto, equiparerebbe di fatto il biologico all’integrato che se fatto bene può certamente garantire il residuo zero. Per evitare questo appiattimento e valorizzare le peculiarità del biologico come metodo di produzione che può garantire la sostenibilità ecologica, economica e sociale dell’agricoltura, bisogna agire su entrambi i lati del problema.
Quali sono?
Certificazione di processo e certificazione di prodotto non sono necessariamente in conflitto, al contrario. Per questo bisogna rafforzare la certificazione di processo spostando il centro del sistema dalle carte al campo. Per fare questo occorre formare i tecnici che operano sul terreno in modo che siano in grado di valutare se un agricoltore è in grado di fare biologico e di capire, quando è rilevata una non conformità, se è causata da ignoranza, e in questo caso colmarla con un’informazione adeguata, oppure se c’è dolo, nel qual caso è necessaria la sanzione. Allo stesso tempo bisogna accettare la sfida che ci viene dai consumatori che chiedono l’assenza di residui. Il limite di 0.01 ppm cioè quello di rilevabilità analitica, previsto ora solo dalla normativa italiana, è un elemento di grande serietà del settore, perché un regolamento deve avere parametri di riferimento, altrimenti tutto è opinabile, anche la differenza sostanziale tra prodotto bio e convenzionale che i consumatori si attendono e che tendono a identificare con l’assenza di residui.
La questione dei limiti è presente anche nel regolamento proposto dalla Commissione?
E’ presente come considerazione generale ma non nella proposta di articolato, quindi non è detto che sarà affrontata.
Nel caso dovesse essere affrontata, lei propenderebbe per una soluzione tipo quella italiana?
Con una sostanziale modifica, vale a dire che tutta la questione dei residui dovrebbe essere improntata alla logica “chi inquina paga”. Mi spiego. Poniamo che ci sia un buon sistema di controllo del processo produttivo che certifica che i prodotti di un agricoltore sono stati ottenuti applicando correttamente il metodo biologico – perciò anche senza l’uso di pesticidi. In questo caso debbo necessariamente dedurre che, se in quei prodotti sono rintracciati dei residui di pesticidi l’origine non va ricercata all’interno dell’azienda biologica bensì delle aziende confinanti che possono aver commesso degli errori nel fare i trattamenti chimici. In questo caso chi paga le conseguenze? Nel sistema in vigore oggi in Italia a pagare è l’agricoltore biologico che, se nei suoi prodotti viene trovato più di 0.01 ppm di residuo, non li può commercializzare come biologici. Di più: alcune Regioni prevedono l’uscita dell’azienda dal sistema di controllo. Ciò è profondamente ingiusto, per questo proporrei il principio “chi inquina paga”. Un agricoltore convenzionale ha tutto il diritto di usare i prodotti chimici che la normativa gli consente. Ma solo entro i limiti del suo terreno e sta a lui prendere le misure per impedire la contaminazione delle produzioni limitrofe. Se non ci riesce dovrà essere lui a risarcire l’eventuale danno subito dal vicino che fa biologico.
Si sono sentite lodi sperticate alla proposta, contenuta nella Bozza della Commissione, di abolire tutte le deroghe…
Certamente esiste il problema delle deroghe che tendono a diventare permanenti. L’unico modo per uscirne è affrontare ciascuna deroga rispetto al problema che l’ha resa necessaria e valutare caso per caso se si può abolire oppure no. Per esempio io credo che entro il 2015 non si possa ancora abolire la deroga che consente l’uso di sementi convenzionali nel caso sul mercato non siano disponibili semi biologici. Se lo si facesse le conseguenze sarebbero disastrose, in particolare in orticoltura dove si tornerebbe a livelli pressoché amatoriali senza alcuna possibilità di soddisfare la domanda dei consumatori. Anziché alla crescita dell’agricoltura biologica come si è fatto finora assisteremmo al suo rapido declino. Il fatto è che le grandi industrie sementiere che hanno in mano questo mercato hanno fatto poco o nulla per sviluppare la ricerca e la produzione di sementi per l’agricoltura biologica. Ed è un vuoto cui non si pone rimedio in un anno. Anche solo per sviluppare e mettere in produzione le varietà di semi già individuate come adatti all’agricoltura biologica occorrono almeno 4-5 anni. Allora, se si vuole fare una proposta che non distrugga l’agricoltura biologica, si può parlare di abolire le deroghe sulle sementi entro il 2020 a condizione però che contestualmente alla fissazione di questa data l’Unione europea presenti un programma di ricerca e di produzione, articolato in piani sementieri da mettere a punto nei diversi paesi, per garantire che delle deroghe non ci sia più bisogno, per il semplice motivo che gli agricoltori trovano sul mercato le sementi biologiche che cercano.
Un esempio di deroga che invece è giusto abolire?
Io credo che superare la deroga sulla mangimistica sia possibile e potrebbe addirittura innescare un circolo virtuoso. Attualmente un’azienda zootecnica può utilizzare una percentuale di mangimi non biologici, e in genere si tratta di soia e di altre proteaginose. In genere si tratta di prodotti d’importazione che, tra l’altro, sono stati anche al centro di alcuni scandali per non conformità al Regolamento sul biologico. Per compensare questa fonte di approvvigionamento è sufficiente consentire che passi dal 30% al 50-60% la quantità di mangimi che possono provenire da aziende in conversione. In questo modo si creerebbe uno sbocco di mercato per le aziende in conversione e, di conseguenza, un incentivo a convertire, per quelle che non la conversione non l’anno ancora iniziata anche per le difficoltà obiettive a piazzare i prodotti in modo remunerativo.
Le interviste pubblicate in precedenza
Paolo Carnemolla, presidente di Federbio
Fabrizio Piva, amministratore delegato di CCPB