Ottavia Piccolo, un’attrice dalle mille sfaccettature che ha dedicato la sua vita all’arte: dal cinema, al teatro, alla televisione. Un lavoro fatto di condivisioni con il pubblico e con i colleghi sul set o sul palco ma anche al ristorante dove il cibo fin da piccola ha rappresentato per lei un’entusiasmante scoperta da vivere in compagnia
Modena, anno 1960, Teatro Comunale, la bimba Hellen (Ottavia Piccolo) caccia decisa le manine nella scodella e afferra manciate di uno strano cibo in scaglie, croccante, giallastro, color… si direbbe proprio color… polenta! Se ne riempie la bocca come un animaletto selvatico, lo distribuisce ovunque, sul viso, sul grembiule, sulla tavola, in terra… pazienza… bisogna avere pazienza. Poverina, la piccola è cieca, sorda, che si può mai pretendere? Ma l’istitutrice non è d’accordo, poverina un corno: può e deve imparare a comportarsi a modo anche a tavola. Finirà in baruffa, ma Anna dei Miracoli (Anna Proclemer) vincerà la guerra. Sono passati più di cinquant’anni e Ottavia Piccolo, di scene in teatro e sul set ne ha calcate tante. Troppe anche per citarne alcune. Solo l’ultima: quella teatrale di “Donna non rieducabile” in cui l’attrice dà carne e voce alla giornalista Anna Politkovkaja, con testo di Stefano Massini per la regia di Silvano Piccardi. Ma il nostro compito, più prosaicamente, è andare a scoprire la “visione del cibo” di Ottavia, attrice-donna-mamma, partendo proprio da quella scodella.
Hai dovuto da subito imparare a recitare mangiando. Ma cosa c’era in quella ciotola?
Corn flakes, banalissimi corn flakes, che però ai tempi non erano così alla moda e di fronte ai quali io, bambina allevata in modo molto tradizionale, ho avuto un momento di perplessità. Ma sono sempre stata curiosa di cibi nuovi e soprattutto ligia al dovere: la scelta del regista, Luigi Squarzina, era motivata dalla necessità di avere a disposizione qualcosa che si potesse prendere con le mani, senza troppi danni, e così sono andata avanti per tutti i sette mesi delle repliche a ingollare sfogliatine di mais sparpagliandole un po’ qua e un po’ là.
Allora avevi undici anni: oltre al “trauma” dei corn flakes avrai dovuto durante le tournée subire anche quello dei pranzi veri, inconsueti, scombinati e notturni.
Recitare ha comportato per me anche una vera rivoluzione alimentare, ho scoperto tantissimi alimenti e piatti che nemmeno mi immaginavo esistessero, ma come ti ho detto ero, e sono, curiosa e anche molto amante del cibo, che per me è sempre stato fonte di piacere, e quindi mi ci sono abituata piuttosto velocemente e senza problemi. Ricordo il mio stupore di bambina semplice e di famiglia modesta di fronte al trionfante carrello dei bolliti misti apparsi all’alzarsi dei lucenti copri vassoi d’argento a cupola di un ristorante di Modena, in cui ci aveva condotti Anna Proclemer proprio la sera della prima di Anna dei Miracoli. Mia mamma era una brava cuoca e conoscevo il bollito, ma quello era un vero tripudio di profumi, sapori, forme e, abbondanza! Però non tutte le sere finivano in gloria… per via dei quattrini. È vero, guadagnavo tanto, ben seimilacinquecento lire a sera quando uno stipendio medio mensile si aggirava intorno alle trentacinquemila lire, ma con quel denaro dovevamo mantenerci in due, la mia mamma ovviamente data l’età era sempre con me, in alberghi e ristoranti. Così, quando verso fine mese i liquidi iniziavano a scarseggiare, facevamo delle sontuose cene in camera, a base di biscotti e latte!
E del cestino sul set tipico del “pranzo sorpresa” degli attori fra un ciak e l’altro, cosa mi dici?
Oh, quello per me è un mito! Anche se ovviamente non per la qualità. E il buffo è che è una tradizione tutta italiana, che risale al dopoguerra, quando con quel cestino ci mangiavano anche le famiglie delle comparse. Comunque la cosa mi diverte e mi rifiuto di accettare privilegi, tipo quello di farmi recapitare il cestino nel camerino o in roulotte: faccio la mia coda come tutti e vado a mangiare con le maestranze! Per me il momento del pranzo è condivisione, non certo stare lì a guardarsi nello specchio da soli.
Ottavia come è alla tavola di tutti i giorni, fuori di scena?
Da bambina, una gran mangiona. Figurati che nel periodo delle medie per pranzo mia madre mi preparava due etti di pasta e io me li finivo tutti! E se c’era il sugo, era ragù, perché quello di pomodoro semplice era considerato proprio un condimento da poveretti. Piuttosto, per una pasta veloce, si optava per burro e parmigiano. In casa mia si mangiava comunque bene, c’era una giusta attenzione, rispetto e amore verso il cibo: mia mamma, di origini marchigiane ha dovuto adattare le proprie tradizioni a quelle pugliesi del babbo e il risultato è stata una cucina mista, varia e genuina, a base di pasta e verdura, sempre in abbondanza, irrorata con olio rigorosamente extravergine d’oliva. E tutto di stagione e legato al luogo. Certi cibi, ormai consueti, un tempo erano una rarità, come ad esempio il parmigiano. Non c’era la consuetudine di consumarlo a pezzi, perlomeno non a casa mia e nelle case che frequentavo, ma solo grattugiato e dal momento che costava caro spesso lo si mischiava col pecorino. Anche il prosciutto crudo di Parma, quello autentico, era una leccornia: ricordo che mio padre lo acquistava solo una volta al mese, quando prendeva lo stipendio, in una salumeria di lusso di via Veneto a Roma e rientrava a casa trionfante col suo pacchettino. Tutta questa “formazione” alimentare mi ha fatto crescere con un buon rapporto col cibo, credo abbastanza equilibrato e godereccio nello stesso tempo, e con la consapevolezza che mangiare in modo sano e con moderazione sia importante per la salute del corpo e dello spirito.
Quindi secondo te è importante la “formazione” che si riceve dall’infanzia?
Certamente. Ho messo molta attenzione anche nell’allevare mio figlio Nicola, purtroppo non allattato al seno per una serie di stupidi problemi che nessuno mi ha aiutato a superare, che a sua volta è un amante della buona tavola, pur dando al cibo il giusto peso.