Annamaria Testa, pubblicitaria di fama, ci svela i segreti della sua inesauribile carica creativa: reperire i dati, “cucinarli” nel modo giusto, amalgamare i pensieri e allestire il “piatto” finito, dosando metodo e passione. Proprio come in cucina
La creatività? Genio e sregolatezza, diranno molti. Risposta sbagliata. Parola di chi alla creatività ha dedicato tutta la vita e oggi è una delle nostre più autorevoli voci nel settore: Annamaria Testa. Ideatrice di progetti e campagne pubblicitarie, una per tutte “Liscia, gassata o…”, docente universitaria e scrittrice, proprio nel suo ultimo libro, La trama lucente, spiega come la creatività non sia già “sfarfalleggiare” tra un’idea e l’altra, ma rigore, piedi per terra e tanta tanta documentazione.
E questo in tutti i campi, compreso quello della cucina, dove le idee innovative senza conoscenza, fattibilità e rispetto del gusto danno risultati pessimi o quantomeno banali. Così siamo andati a chiacchierare con la signora Testa di cibo e creatività, scoprendo che hanno davvero molti più punti in comune di quanto potessimo immaginare.
La sua creatività la esprime anche in cucina?
Ora non molto, fondamentalmente per una questione di tempo, ma ho un ricordo di quando mi è stata di grande supporto. Avevo diciotto anni e, ecologista ante litteram, avevo organizzato sul lago di Garda con la Forestale un “campo di lavoro”. Giornate dure: i ragazzi a piantare alberi e sistemare sentieri e le poche ragazze a sfamare la truppa. Impresa epica, dovendo cucinare per una trentina di persone, per tre mesi, con un occhio alle dosi e con tutti i problemi di approvvigionamento e di conservazione, poiché ovviamente non c’era il frigorifero. In quell’occasione mi è davvero toccato far ricorso al pensiero creativo e rispolverare tutte le ricette e la cultura culinaria che avevo imparato da mia nonna e soprattutto da una vicina di casa che mi aveva insegnato l’amore per la cucina “di tutti i giorni”. Il risultato, comunque, visti i mezzi e le condizioni, è stato più che onorevole.
Non per nulla si dice che la fame aguzza l’ingegno
La fame è certamente una grande spinta, e non solo per noi esseri umani: molti animali superiori dimostrano creatività in relazione al cibo. Un esempio eclatante è quello della scimmia Imo che, dopo aver scoperto che le patate lavate sono più buone, lo ha insegnato a tutta la sua comunità. La stessa scimmia, una giovane femmina, in seguito ha migliorato ulteriormente il comportamento, cominciando a usare l’acqua di mare che, oltre a lavare le patate, le insaporisce. Al di là della fame, alla base del pensiero e della pratica creativa, in ogni campo, ci sono l’insoddisfazione, la voglia di ottenere qualcosa di migliore e la capacità di unire ingredienti lontani in una sintesi nuova, utile e positiva, come teorizzo nel libro La trama lucente. Fra l’altro, la creatività non va confusa con la trasgressione e la sregolatezza. Il “genio”, nel momento in cui produce, lavora con metodo, dedizione e applicazione, sia esso un grande scienziato, un artista o un cuoco. Invece, mescolando ingredienti a caso e pensando che basti questo per essere innovativi, si producono, anche nel settore alimentare, solo fetenzie immangiabili o addirittura velenose.
La cucina è dunque una metafora della creatività?
Il legame è doppio, perché la cucina è un grande campo d’applicazione della creatività e perché la creatività consiste nel “cucinare” virtualmente elementi, notizie e informazioni, che vanno innanzitutto reperiti. Si va dunque al “mercato” della cultura a “fare la spesa” scegliendo gli ingredienti più freschi e scartando le offerte scadenti. Si tratta di un momento cruciale in tutti i processi creativi: la raccolta dei dati e la documentazione devono essere ampie e di qualità, altrimenti non si ha materiale su cui lavorare. E questo vale ovviamente anche quando si deve studiare una campagna pubblicitaria. Questi ingredienti poi si “portano a casa”, cioè si fanno propri, e quindi li si “cucina” nella propria mente: si studiano, si organizzano, si elaborano, si scelgono e si assemblano, in parte in modo razionale e in parte in modo intuitivo. Intanto che gli ingredienti si amalgamano, si assaggia e si aggiusta, cercando di produrre cose buone e non avvelenare il pensiero. Gli errori più grandi sono proprio quelli di non “fare la spesa” e di non “assaggiare” metaforicamente.
Tornando alla cucina, non si possono sempre elaborare nuovi piatti, c’è anche quella di tutti i giorni, decisamente più standardizzata
Questo non è detto. La creatività, lo dicono i molti teorici che l’hanno studiata per decenni, si esprime in tantissime attività, anche le più quotidiane e banali, e a una grande quantità di livelli. Pensiamo alla cucina degli avanzi, con i quali si possono preparare piatti eccellenti e che richiede molto ingegno e abilità.
È bello pensare a una rete di nuove idee che percorre tutto il mondo quotidianamente
Il titolo del mio libro La trama lucente fa riferimento proprio alle trame che costituiscono la creatività. Sono trame che legano insieme idee, pensieri, ingredienti.
Trame che costituiscono la nostra storia personale, che legano gli eventi del tempo, che uniscono ciascuno di noi con i grandi del passato e con i nostri contemporanei, permettendoci di scambiare idee e di nutrircene. Ma c’è anche la trama che unisce ragione ed emozioni, che interagiscono di continuo. E, per restare in tema, la trama che unisce cucina, chimica, fisica, filosofia, visione del mondo. Insomma, ho cercato di raccontare ai lettori come la creatività sia una facoltà insieme alta e domestica, accessibile a tutti coloro che desiderano “alimentarsi” per essere creativi. E qui le metafore alimentari si sprecano: divorare i libri, nutrire la propria mente... Il bello del cibo che nutre la mente è che non si esaurisce nel momento in cui viene consumato, ma si moltiplica, come recita un detto grazioso: se due persone si scambiano una mela, ciascuno ha una mela, ma se due persone si scambiano un’idea, ciascuno ha due idee.
Cosa pensa delle abitudini alimentari degli italiani?
Aumenta il numero di consumatori consapevoli, attenti al biologico, alla stagionalità, alla sostenibilità e alla qualità: questo, contrariamente a quel che si può pensare, è vincente nei momenti di crisi. Si sta anche diffondendo la cosiddetta filiera corta che evita passaggi inutili delle derrate alimentari: io mi faccio inviare ogni settimana una magnifica scatola di verdura e frutta bio “a sorpresa” da un’azienda agricola di Novi Ligure: aprire la scatola è sempre una festa!
Come si può, attraverso la comunicazione, far capire l’importanza del cibo per il nostro benessere?
Non basta comunicare che un certo alimento è buono e fa bene: se quel cibo non fa parte di una cultura alimentare consolidata attraverso l’esempio e la diffusione di pratiche e modelli virtuosi, e se non entra nel sistema dei desideri delle persone, è difficile che venga adottato in modo permanente. Tanto per fare un esempio: per promuovere il pesce azzurro sarebbe forse più efficace offrire in piazza delle acciughe fritte, piuttosto che fare una pagina un po’ triste sulle virtù di questo alimento. Il cibo, bisogna raccontarlo attraverso il gusto, i profumi, il piacere.
So che lei è tendenzialmente vegetariana
Ha detto bene. Tendenzialmente, ogni tanto la carne la mangio, per esempio quando sono ospite e non voglio mettere in imbarazzo i padroni di casa. La mia scelta vegetariana deriva da una presa di posizione ecologista. Per alcuni periodi ho seguito anche la cucina macrobiotica, di cui ritengo tutt’ora valide le impostazioni di base: la freschezza e la stagionalità degli ingredienti, la scelta dei cereali integrali, l’attenzione alle cotture, alle energie, agli accostamenti, al taglio. Non mi ritrovo, invece, in certi atteggiamenti un po’ “talebani” della macrobiotica, perché penso che la mancanza di elasticità sia nociva in ogni campo.
Un pensiero conclusivo su cucina e creatività
Un’attività ottima per farsi venire idee è pelare le patate: le mani vanno, e va anche la mente…