Nel suo romanzo "Mi fido di te" Massimo Carlotto ha denunciato il grande giro d’affari sporchi che si nasconde dietro il mondo dell’industria alimentare. Una maggiore consapevolezza da parte di tutti i consumatori, più controlli e più biologico sono le armi vincenti contro la malavita…
Un noir con un assassino cinico e senza scrupoli che lucra e si arricchisce con alimenti contraffatti e mortali per i consumatori. Un noir che fa pensare con un sospiro di sollievo “meno male che è un romanzo”. Già, un romanzo. Peccato che indagando un po’ ci si renda conto che quell’assassino nascosto nelle pagine del libro è la summa di una reale criminalità organizzata e che le potenziali vittime di quei cibi velenosi siamo tutti noi, povere pedine con la prosaica abitudine di “fidarci” del cibo che mangiamo. Mi fido di te è proprio il titolo del noir che Massimo Carlotto ha incentrato sul disgustoso circolo criminale che si sviluppa intorno al cibo e che probabilmente, lui, così appassionato di cucina, non avrebbe mai voluto scrivere.
Come sei finito a mettere il naso nella criminalità alimentare?
È stata proprio una brutta scoperta. È accaduto assolutamente per caso dopo aver constatato che la pappa reale che davo a mio figlio era in realtà una schifezza cinese contraffatta e piena di antibiotici. Così ho iniziato a informarmi e a mano a mano veniva fuori sempre più il marcio - letteralmente - dei cibi che i delinquenti che manovrano il mercato ci fanno consumare, ingannandoci e mettendo a repentaglio la nostra salute. A indignarmi e a spingermi a scrivere questo libro, un lavoro a quattro mani con Francesco Abate, sono state fondamentalmente due cose. Una è che la sofisticazione alimentare non sarebbe possibile senza la corruzione, che crea un circolo vizioso e maledettamente lucroso di criminali che continuano indisturbati i loro traffici senza andare in carcere. L’altra è che i media ne parlano poco o niente, per timore di perdere le pagine di ubblicità: così abbiamo pensato che anche un romanzo avrebbe potuto essere utile per far aprire gli occhi alla gente.
Ecco, appunto, la gente. Anche se i media non ne parlano, mi domando come sia possibile che tutti noi continuiamo a comprare schifezze. Come siamo arrivati a tanto?
Ci sono tanti fattori che si concatenano. Innanzitutto i nostri bisogni sono indotti dall’industria alimentare che investe cifre enormi per inventare di continuo sapori artificiali completamente chimici e omologati. Questo costa all’industria meno che procurarsi materie prime di qualità e di conseguenza il prodotto costa meno, molto meno anche al consumatore, che oltretutto si “droga” di questi sapori forti alla moda sapientemente studiati per stuzzicare il palato, appagare la vista e creare una vera e propria dipendenza. Va poi precisato che questo tipo di alimenti a basso costo, ricchi di zuccheri raffinati e grassi di pessima qualità, sono secondo l’Oms causa delle tre patologie più diffuse: diabete, malattie cardiovascolari e tumori.
Cosa dice la legge in proposito? E le etichette che dovrebbero dichiarare vita, morte e miracoli di ogni singolo ingrediente?
Appunto, altro fattore che consente sofisticazioni e frodi è il rapporto perverso esistente tra legislazione alimentare e produzione che consente e anzi, in un certo senso incita a sofisticare gli alimenti, permettendo ad esempio a un pollo tailandese o brasiliano, scongelato, manipolato, gonfiato e poi portato in Olanda, di essere etichettato come olandese, guadagnandoci sopra cifre da capogiro - sulle quantità ovviamente - nella totale ignoranza del consumatore. In questa situazione si è facilmente inserita la malavita, favorita anche dalla mancanza di senso critico dei consumatori, incapaci di distinguere un prodotto genuino da uno contraffatto.
Facciamo la storia di un alimento “criminale”
Benissimo, anche se poi i vostri lettori non mangeranno più. Giri loschi sono ad esempio quelli che riciclano cibo andato a male. Prendiamo le uova: le associazioni a delinquere che operano nel settore, grazie a una catena di corruzioni, prendono quelle destinate alla discarica, le trattano in modo da eliminare la putrescina e la cadaverina, due sostanze che si formano nei cibi andati a male, e poi le trasformano in semilavorati destinati all’industria alimentare, che più o meno cosciente e più o meno costretta li acquista a prezzi molto più bassi. Altro esempio è quello della farina di grano di qualità 5, destinata all’alimentazione animale e contaminata da ocratossina, una icotossina altamente cancerogena. La guardia di finanza italiana ha scoperto un traffico gestito per lo più dalla ‘ndrangheta di migliaia di tonnellate di questo grano, che viene caricato sulle navi e portato in Italia, dove finisce nei nostri pastifici, mescolato al grano buono. E quindi sulle nostre tavole. Per non parlare del caffè: nelle buste di quello macinato han trovato di tutto, cicoria, piselli, ma quelli destinati alla discarica perché marci. Tutti questi passaggi e sofisticazioni sono lucrosissimi e la globalizzazione ha consentito la creazione di una rete di criminalità altrettanto globalizzata e fortissima sia nel campo alimentare sia in quello dei rifiuti, due settori che infatti sono ormai nelle sue mani. La merce avariata viene poi venduta sottobanco a prezzi assolutamente concorrenziali e i commercianti e produttori chiudono un occhio e non si fanno troppe domande.
Manca anche una banca dati centralizzata che registri tutte le contraffazioni alimentari e questo non consente di avere la consapevolezza dell’enorme giro di affari sporchi.
Dalla tua esperienza, il mercato biologico, la filiera corta, i gruppi di acquisto, ci proteggono da tutto ciò?
Io sono convinto di sì. Soprattutto conoscendo i produttori c’è una buona garanzia sulla qualità della materia prima: ma te ne accorgi anche dal sapore, che non ha nulla a che vedere con quello dei prodotti pronti, i più a rischio di contraffazione. Dopo questo libro comunque ho capito con chiarezza l’aspetto etico e globale che ha il cibo e ho cambiato radicalmente il mio modo di fare la spesa, diventando più consapevole e critico, con ripercussioni positive anche sul mio benessere psicofisico. Facendo la spesa con i gruppi d’acquisto si impara a consumare prodotti nuovi e di stagione e a non sprecare. Ho iniziato anche a mangiare meno carne, che acquisto da un allevatore che conosco personalmente.
Come tenere fuori la delinquenza dal biologico man mano che questo diventa più diffuso e quindi più appetibile?
Credo che questo mercato abbia in sé gli anticorpi per mantenersi “pulito” e non snaturarsi anche una volta ingrandito: e per fortuna io vedo sempre più gente e facce di ogni tipo, non solo quattro intellettuali fissati, comprare biologico. Però è indispensabile che con esso si diffonda anche la coscienza e l’informazione, che la gente impari a distinguere i sapori buoni e che capisca quanto è importante mangiare bene, per il gusto e per la salute. Come è indispensabile che ci siano controlli ferrei nel biologico e che continui il rapporto diretto di fiducia e il sostegno ai piccoli produttori locali, in modo da non consentire l’infiltrazione di giri loschi. Ma questa consapevolezza si diffonderà se si farà informazione e cultura nelle scuole, mentre purtroppo si stanno facendo passi indietro: in quella di mio figlio hanno tolto il biologico dalla mensa, che sembrava una conquista consolidata… Se un bambino cresce con alimenti buoni e genuini sarà più facile che continui a cercare questi sapori anche da grande.
Che cosa ricordi del cibo della tua infanzia?
Sicuramente sono cresciuto mangiando cose buone. Ricordo il profumo del sugo di carne della domenica, che io avevo l’alto compito di assaggiare, l’arrivo dei parenti dalle Puglie e soprattutto di una zia che aveva le mani d’oro in cucina. Anche mia mamma è sempre stata una cuoca appassionata. I maschi della famiglia, invece, erano esclusi dalla cucina e per conquistarmi un posto tra i fornelli, cosa che mi ha sempre affascinato, ho dovuto attendere di andarmene da casa. E ho anche avuto per un anno un ristorante, qui a Padova, mia città natale.
Un ristorante tuo?
Un’esperienza molto intensa e divertente. È stato uno dei primi ristoranti Slow- Food, ai tempi ArciGola, e il cuoco era un ex professore di latino. I menu erano tutti ispirati a pagine di letteratura e a suggestioni di Paesi lontani in cui avevamo viaggiato, sempre in un’ottica enogastronomica.
Cosa ci dici di cibo e convivialità?
Dico che è un binomio indissolubile, che a casa nostra si concretizza in due momenti convivial-gastronomici. Uno è “la merenda” che si svolge tutte le domeniche pomeriggio dalle sei a mezzanotte, quando apriamo la casa agli amici offrendo il cibo e il vino più adatti secondo l’orario. È molto bello e libero perché abbiamo la casa piena di gente, ma ognuno può venire e restare per il tempo che desidera, senza obbligo alcuno. In Sardegna invece abbiamo celebrato per anni il “Sazzagon day” in onore del sazzagone, che in campidanese è colui che si ingozza di cibo con voluttà e sapienza. Si trattava di una gara tra amici con tanto di votazione finale in cui ognuno si produceva nel proprio piatto migliore e tutto era lecito, compreso il farselo cucinare da uno chef griffato. Durava dalle otto di sera alle otto del mattino, ma a un certo punto abbiamo dovuto interrompere perché il passaparola aveva tracimato, fino ad arrivare a centodieci convitati molti dei quali perfetti sconosciuti. Ma ora ci riproveremo.
Finiamo con un bel pensiero, una speranza, un suggerimento per i nostri lettori
Innanzitutto vorrei che ci fosse una rivolta del cibo da parte della popolazione, finalmente conscia e stufa di essere imbrogliata. D’altra parte tutte le rivoluzioni sono state accompagnate dalle lotte per il pane! Ma molto più modestamente, basterebbe una piccola cosa che possiamo fare tutti: rispettare le stagioni, che è il primo anello di una catena virtuosa, tenere le orecchie all’erta e capire che mangiare è un atto globale - in senso buono - e “politico” a tutti gli effetti, e che da esso dipende il benessere di tutti.