Stefano Bartezzaghi, famoso enigmista, le parole ama sezionarle, incrociarle, proprio come in cucina si combinano gli ingredienti per arrivare ad assaporare il perfetto “incastro” di tutti i componenti
Alcuni anni fa, nel menù di un albergo altoatesino comparve un misterioso piatto che conteneva “pescepalla”, che poi, per fortuna, altro non era che besciamella. Ecco: le parole servono per descrivere il cibo e anche per farlo assaporare prima mentalmente, purché siano usate in modo appropriato. Abbiamo dunque chiacchierato con Stefano Bartezzaghi di parole e cibo, di come si incrociano, di come si mettono in relazione, partendo dai giochi che tutti i genitori fanno fare ai bambini quando mangiano e che sicuramente in casa Bartezzaghi erano giochi d’autore.
Stefano, com’era a tavola la sua famiglia enigmistica?
Molto tradizionale, pranzo e cena rigorosamente tutti insieme con le gambe sotto il tavolo, mamma, papà e noi tre fratelli, ed erano i momenti in cui la famiglia si riuniva veramente: chiacchiere, resoconti scolastici, ma anche amenità, battibecchi, discussioni e naturalmente un’infinità di giochi di parole sul cibo e non solo. Ma anche durante la giornata la cucina era il vero focolare intorno al quale ruotava la nostra vita e ho un ricordo vivissimo delle lunghe chiacchierate che da ragazzo facevo con mia madre mentre cucinava: è ferrarese e ottima cuoca, eccellente preparatrice di pasta fatta in casa, che non mancava mai nei giorni di festa. Ricordo solo due volte in cui la domenica aveva portato in tavola normali spaghetti, scusandosi formalmente per la “gravissima mancanza”.
Ma a lei era permesso “giocare” con gli ingredienti o la cucina era regno esclusivo di sua madre?
No, no, c’era accesso libero e mi incuriosiva soprattutto osservare, ma mi affascinava molto anche la combinazione degli ingredienti e la manipolazione dell’impasto che si sarebbe trasformato come per magia in tagliatelle, lasagne e ravioli. Insomma davo una mano, anche se non so con quale profitto per la cuoca. Comunque, dei tre fratelli sono sempre stato quello più portato ad elaborare gli elementi anche “mangerecci” e pur senza grande vocazione mi piace cucinare e trovo sia particolarmente bello farlo soprattutto per i propri cari. Questa predisposizione mi ha anche salvato dalla sindrome frigo-stomaco vuoti quando, uscito di casa per andare a studiare al Dams (il corso di laurea in Disciplina delle arti, della musica e dello spettacolo) di Bologna, ho dovuto barcamenarmi con budget ristretti. Perché va puntualizzato che a Bologna, negli esercizi pubblici, la qualità del cibo non sempre è delle migliori e se si vuole mangiare decentemente si deve provvedere in proprio. Va insomma sfatato il mito della capitale emiliana scrigno di ogni delizia culinaria!
Che evoluzione ha avuto la sua “educazione culinaria”?
Diciamo che da piccolo ero discretamente schizzinoso: soprattutto mi infastidivano gli odori forti come quelli del pesce e del fegato, un appuntamento fisso del venerdì e del martedì, e avevo un’avversione spiccata per le banane e le melanzane, probabilmente per loro particolare consistenza. Però crescendo ho imparato ad apprezzare tutto, anche se la mia cucina preferita è quella tradizionale lombarda, temo a prevalenza di cibi che fanno male, grassi e pieni di colesterolo come la carne rossa. Insomma, non sono un salutista, anche se col passare degli anni mi rendo conto che bisognerebbe stare un po’ attenti. Però faccio in modo di non incrociare le parole, che per me sono lavoro, col cibo, ossia cerco di scandire la mia giornata in modo da non pensare al lavoro durante i pranzi e, soprattutto se sono da solo, ci tengo ad apparecchiare la tavola in modo decoroso e a predisporre tutto per non dovermi alzare mille volte. Non mi riduco mai a raccattare qualcosa dal frigo all’ultimo momento piazzandomi davanti alla televisione: e questo credo sia abbastanza salutare e igienico. In ogni modo, le banane continuo a detestarle, mentre sotto l’aspetto linguistico le amo molto.
In che senso l’aspetto linguistico delle banane?
Ci sono alcune parole, come appunto banana e ananas, che sono già di per sé dei giochi e, più precisamente, la prima è un antipodo palindromo diretto e la seconda un antipodo palindromo inverso. Mi spiego: spostando alla fine la B di banana si ha ananab, che letta al contrario ritorna banana, mentre spostando la S di ananas all’inizio si ha sanana, che letta al contrario ritorna appunto ananas.
Incrociare parole e incrociare cibi: c’è qualche analogia?
Devo ammettere che se mi sapessi districare ai fornelli quanto con le parole sarei probabilmente un cuoco molto più bravo. Ma sicuramente sia incrociare le parole sia incrociare gli ingredienti sono operazioni di tipo combinatorio, che devono in qualche modo trasformare gli elementi, farli interagire, non lasciarli, insomma, reciprocamente indifferenti. E che richiedono pazienza. C’è però una differenza fondamentale fra le parole crociate e la gastronomia, perché le prime si fondano su principi cartesiani, orizzontali e verticali, devono incrociarsi in modo, preciso senza lasciare spazio ad approssimazioni ed aggiustamenti, mentre il cibo è materia che si trasforma in modo continuo e fluido.
Com’è cambiato il linguaggio rispetto al cibo?
È cambiato molto, a iniziare dai menù dei ristoranti che si inventano nomi sempre più ricercati per stupire, per non parlare dei ristoranti etnici in cui il nome del piatto è assolutamente opaco e appunto enigmistico, perché può essere tradotto o trascritto in modo non corretto e quindi tutte le volte è una sorpresa. Ora poi c’è la moda di distribuire le virgolette a casaccio e senza considerare che esse introducono o una citazione o attribuiscono una connotazione di “cosiddetto”, creando incomprensioni: un giorno lessi in un menù “le “nostre” specialità”, il che lasciava intendere che le specialità non erano per niente di loro produzione, contrariamente all’intenzione di enfatizzarne la genuinità. Altra mania è quella delle “teche”: risale alla fine degli anni ottanta una raccolta di insegne che comprendeva anche una minestroteca e una tramezzinoteca. E poi provi a pensare alla frase ormai consueta “andiamo a mangiare una cosa”: con essa si vuol probabilmente sottolineare il fatto che non è tanto importante il cibo quanto l’incontro, ma è entrata nell’uso corrente da non più di dieci anni. E chissà quanti altri esempi possono venire in mente: ognuno può provare a scoprire l’enigmistica dei cibi.