Silvia Avallone è una delle nostre più promettenti giovani scrittrici. Adora i cibi della sua infanzia, veicolo di forti ricordi ed emozioni. E non li abbandona mai, neanche nei suoi libri
Incontriamo Silvia Avallone, giovane scrittrice i cui libri, ancora pochi vista l’età, hanno riscosso un grande successo e, quindi, non è un azzardo scommettere che ne seguiranno molti altri.
Le tue radici, anche culinarie, sono a Biella
Il ricordo va subito alla cucina di mia nonna, proprio in Valle Cervo, dove facevo i compiti e leggevo mentre lei impastava, innanzitutto gnocchi, e sfoglia per gli agnolotti. Io la spiavo e mi sentivo proprio come in una culla. Altro profumo e sapore della mia infanzia è quello del pane del nonno, che faceva il fornaio, e poi quello dei formaggi. Mi sono costruita il palato, anche da un punto di vista affettivo, su questi pochi elementi e direi proprio che, almeno per quel che riguarda il cibo, sono piuttosto infantile.
Vuoi dire che non ami sperimentare cibi nuovi?
Diciamo che i cibi della mia infanzia restano i miei preferiti e mangio poche cose, semplici. Sono legatissima alla cucina regionale italiana, amo soprattutto i primi e i formaggi e all’estero mi trovo spesso in difficoltà, perché sono curiosa in tutto, ma non riguardo al cibo. Inoltre, ci sono alimenti che non mangerei mai, come ad esempio la cipolla. È un sapore che nella cucina della mia infanzia non si usava, o almeno non in dosi e in forma che io potessi percepire, e così ora lo sento aggressivo, addirittura minaccioso. Altra cosa che non mi piace è mischiare. Amo assaporare i cibi uno alla volta e trovo ad esempio insopportabili, anche per il loro nome, le “insalatone” che vanno tanto di moda ora. E visto che siamo in argomento, confesso che non mi piace cucinare, anche se mela cavo, mentre adoro fare la spesa e soprattutto mi dà tanta gioia mangiare bene. A parte il periodo universitario a Bologna, non ho mai dovuto mettermi ai fornelli, perché sono sempre stata circondata da ottimi cuochi, a iniziare da mio marito Giovanni, che ama passare le ore in cucina. Attraverso il cibo si veicolano gli affetti, a tutti i livelli: per me il pranzo è quello con la famiglia e a casa, non c’è ristorante che tenga!
Come sei diventata scrittrice?
Sono sempre stata una grande lettrice. Anche se ho fin da giovanissima scritto, mai avrei sperato di poter fare la scrittrice di mestiere. Comunque tutto è iniziato perché, a due esami dalla laurea specialistica, mi sono resa conto che non avrei potuto in breve tempo fare l’insegnante, come desideravo. Così, per non pesare sui miei ed essere indipendente, mi sono imposta di scrivere con una certa velocità Acciaio, ambientato a Piombino, dove ho vissuto per un certo periodo. E poi è arrivato Marina Bellezza, ambientato appunto in Valle Cervo. Qui i sapori e le immagini sono quelli della mia infanzia, anche riguardo le tempistiche e le abitudini: pane, burro, formaggi, pasta fatta in casa, pranzi e cene presto, a orari scanditi e in famiglia. Gli anni di Piombino invece sono scanditi dai sapori e dai ritmi della mia giovinezza: schiacce (focacce), olio, pesce, salumi, il vino, gli amici, orari più liberi.
Come entra il cibo nei tuoi romanzi?
In Acciaio entrano assai poco, perché le protagoniste sono ragazze molto giovani che non badano al cibo. E anche io ero più giovane e non molto interessata a parlarne. In Marina Bellezza invece il cibo è più presente, anche dal punto di vista ambientale ed economico. Si parla di Italia in crisi, di territori abbandonati in cui i giovani tornano per inventarsi un futuro che non c’è e per riappropriarsi delle terre e questo passa anche attraverso il recupero e la valorizzazione delle risorse alimentari del territorio. Il protagonista maschile, Andrea, l’amore di Marina, non avendo altre prospettive decide con rabbia di tentare un mestiere antico e abbandonato, quello del malgaro, ossia un pastore transumante, il che comporta anche la lavorazione dei formaggi locali, il maccagno e la toma, che io ho descritto. E si parla anche dei pranzi in famiglia, che sono momenti di affetto, ma anche di discussione e litigi. Insomma, in questo romanzo da un lato il cibo è un tramite per entrare nella vita intima delle persone, dall’altro è lo strumento di una sfida, quella di riprendersi un pezzo d’Italia abbandonata per non lasciarla cadere a pezzi: credo profondamente che la valorizzazione delle nostre risorse e delle nostre bellezze sia uno dei modi per dare fiducia alla mia generazione.
Un consiglio a chi vuole intraprendere il tuo mestiere
Ne suggerisco tre, ben volentieri. Primo: uscire nel mondo, sporcarsi le mani, investigare, intervistare, perché lo scrittore è un testimone, non un protagonista; secondo: rileggere, cancellare, riscrivere senza paura della fatica, perché scrivere non è solo ispirazione, ma impegno quotidiano; terzo, ma il più importante: leggere, perché se non leggi sei povero, non hai le parole per pensare. E, tanto per restare in tema, non sei “nutrito”.